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”Erdogan è un bullo, ma il suo gioco non può durare all’infi

Intervista alla scrittrice e attivista turca reduce da 136 giorni in carcere per aver denunciato gli orrori del presidente che ha il suo stesso nome

La realtà ha solo momenti reali e le sue storie, collocandosi nell’infinito, vengono successivamente, tra quei segni di punteggiatura dove i sentimenti e le esperienze tornano indietro molto tardi. Quelli di Asli Erdoðan, giornalista, scrittrice e attivista turca per i diritti umani, sono raffreddati, sedimentati in uno stato irriconoscibile e non riuscendo a trovare un angolo della mente in cui potersi installare, ”si allungano infiltrandosi come spine”.

È lei stessa a scriverlo in ”Neppure il silenzio è più tuo”, il suo nuovo libro, una selezione di articoli scritti negli ultimi anni e pubblicati in Italia da Garzanti (la traduzione è di Giulia Ansaldo), un invito a udire e a far sentire il proprio grido, un grido di denuncia contro la falsità del potere che priva i cittadini dei loro diritti, una lotta intellettuale e assoluta – la sua — che manda in frantumi quel silenzio assordante. La Erdoðan, cinquant’anni compiuti lo scorso marzo, ha deciso di ribellarsi, di parlare e di scrivere e ha pagato per aver fatto tutto questo scontando ben centotrentasei giorni nel carcere di Bakirkoy. La sua colpa? Aver collaborato — subito dopo il tentativo del colpo di stato del 16 luglio del 2016 — con il giornale pro curdo Özgur Gundem denunciandovi gli orrori del governo nei confronti di quel popolo. ”Il carcere è stato il trauma più grande che abbia mai vissuto”, ci spiega fissandoci con i suoi grandi occhi verdi quando la incontriamo in un hotel romano. ”Adesso sta a me cercare la forza, ma ci sto ancora lavorando”, aggiunge questa scrittrice che, lּ dicembre prossimo, sarà uno dei super ospiti più attesi a Più libri Più Liberi — la Fiera della piccola e media editoria in programma a Roma, nella nuvola di Fuksas all’Eur (l’incontro sarà condotto da Chiara Valerio e da Pierluigi Battista).

Difendere la libertà e la pace non è un reato né un atto di eroismo, ma il nostro dovere”, tiene a precisarci — e oltre a difenderle, dobbiamo restituire a queste parole i significati e la sacralità che hanno perso. ”Non essere complici dei massacri, invece, non è solo un diritto e un dovere, ma il senso stesso della nostra esistenza, è il nostro macigno, trasportato e amato fin che possiamo, il nostro fato”. Lei non ricorda quando ha iniziato ”a reagire”, perché ”è difficile individuare un momento specifico, soprattutto dopo quello che mi è successo”, ma sicuramente un punto di svolta in tal senso è stato l’iniziare a collaborare come editorialista per Radikal, un giornale di sinistra grazie al quale si iniziò a parlare, anche in Turchia, di torture, di scioperi della fame, delle prigioni e delle violenze sessuali. ”Era il 1998, prima di allora avevo solo scritto romanzi. Chiamarono me e altre tre donne del mondo della letteratura a fare le editorialiste, un’esperienza unica perché per la prima volta non mi ritrovavo più chiusa nella mia stanza a immaginare realtà fantastiche o a ragionare su metafore, ma scrivevo di persone reali e di reali tragedie. Da quel momento posso dire di aver sentito il peso della responsabilità nel fare questo mestiere”.

Lei ha una laurea in Ingegneria, una in Fisica, ha lavorato per diverso tempo al Cern, l’Organizzazione europea per la ricerca nucleare, ma poi ha preferito la Letteratura: perché questa scelta?

”Ovviamente non è successo da un giorno all’altro. Scrissi un libro che nel 1990 vinse un premio letterario turco. Fu una vera sorpresa per me che non ho mai avuto ambizioni da scrittrice. Ho imparato a leggere a quattro anni, leggevo molto, ma non avevo scritto nulla fino a quel momento. Poi, però, col passare delle notti, la scrittura è divenuta più importante e ho capito che era per me una questione di sopravvivenza. Passavo quattordici ore al Cern, tornavo a casa e scrivevo per altre cinque ore, dormivo pochissimo e col passare delle notti, la scrittura è divenuta più importante ed ho capito che era per me una questione di sopravvivenza”.

La scrittura l’ha portata poi a trovarsi in ”una situazione assurda” e incomprensibile ai più di cui sta ancora pagando le conseguenze. Ci spieghi come è andata.

”In un capitolo di un mio libro, Diario del fascismo, parlavo di alcuni fatti di cronaca che in realtà erano delle riflessioni poetiche su cosa significa per un animo umano vivere in un regime oppressivo e omicida, di come ti contamini l’animo nei modi più subdoli. In un articolo intitolato ”Un edificio in fiamme” spiego che è come trovarsi in un edificio che sta andando a fuoco: vedi solo il fumo, non c’è via di fuga e quel fumo ti contamina le parti più recondite del corpo. Il Pubblico Ministero ora sta usando quell’articolo nel processo contro di me. C’è una frase in cui parlo dello scrivere in un’epoca in cui la gente viene bruciata viva, ma in realtà i miei erano solo termini metaforici e non, come ha sostenuto il Pm, di un’operazione svolta dall’esercito turco in cui sono state effettivamente bruciate vive molte persone. Questa ipotesi è impossibile, perché io ho scritto quell’articolo a maggio, mentre i fatti sono avvenuti a giugno. Un’accusa assurda che dimostra che in Turchia una semplice metafora può diventare oggetto del processo. La scrittura non mi è stata mai portata via del tutto, perché anche in carcere riuscivo a scrivere delle lettere che poi facevo uscire fuori toccando molte persone. È stato più difficile tornare a scrivere dopo essere uscita dal carcere. Qualcosa nel rapporto tra me e la penna si è rotto e tutt’ora mi risulta difficile scrivere, sono riluttante a farlo, nemmeno se si tratta di articoli bevi. Il carcere è stato un trauma enorme, un trauma che sto ancora cercando di affrontare e credo che ci vorrà del tempo per ricucire questa ferita, non è detto che ce la farò. Non mi porteranno mai via la scrittura. La mia fiducia nella letteratura è assoluta ed è una cosa che non si può uccidere in nessun modo. Anche se io dovessi morire, ci sarà sempre la letteratura. Scrivo per dare voce a quello che ho dentro, ma non so se saprò continuare a scrivere frasi sensate, è un rischio che corrono tutti gli scrittori”.

Ora lei vive a Francoforte, ma quando finirà tutta questa storia?

”Me lo chiedo ogni giorno, più volte al giorno. Siamo in dieci a essere sotto processo: cinque persone che fanno parte dell’advisory board del giornale, due caporedattori, un ex capo redattore, il proprietario e io. Due del board sono però all’estero, uno è in Svizzera, e pertanto, non essendo in Turchia, non possono deporre nel processo, che le autorità locali potrebbero allungarlo a loro piacimento, all’infinito. La cosa positiva è che adesso c’è un giudice nuovo che ha chiesto al Pm di fare la sua decisione finale a marzo. Se accetterà, potrebbe risolversi il tutto entro un anno, oppure no, lì tutto è possibile”.

Dopo il carcere, cosa è successo?

”Da quando sono uscita, a gennaio di quest’anno, fino a settembre, quando ho deciso di andare via dalla Turchia, non c’è stata una singola notte in cui sono riuscita a dormire. Soffrivo di un’insonnia pazzesca, avevo terrore della polizia e che la stessa tornasse a prendermi a casa. La prima vera notte di sonno l’ho fatta in Europa a settembre quando ho ricevuto un premio. Le autorità hanno fatto di tutto per farmi sentire in quella situazione; c’era una macchina sotto casa mia, un giorno hanno anche bussato violentemente alla mia porta e fatto di tutto per distruggermi i nervi, riuscendoci. Ogni volta che lasciavo interviste a un giornale straniero, c’era sempre poi qualcuno che mi seguiva fino a casa. Per questo motivo, ho pensato spesso al suicidio e ogni tanto ci penso ancora. Mi dicono sempre che uno non dovrebbe parlare di queste cose con i giornalisti, ma non vedo il motivo per mentire. Sono una scrittrice nevrotica e al suicidio mi capita di pensarci. So bene che non potrei mai sopravvivere a trent’anni di carcere. Quando mi hanno messo in galera dissi che entro un anno sarei uscita, da viva o da morta. Non ho un passato da attivista politica e mai stata una persona particolarmente combattiva, quindi non sono pronta per una cosa del genere. Sono una scrittrice, sono una persona sensibile, non sono come Nelson Mandela e non riuscirei a sopravvivere come ha fatto lui nell’attesa. Se il pm chiede il mio rilascio, forse tornerò in Turchia, ma è tutto da vedere, perché potrebbe essere un inganno. Potrebbero annunciare il mio rilascio e poi, una volta arrivata lì, arrestarmi o levarmi il passaporto. In Turchia, oggi, a più di centomila persone è stato levato senza un’indagine ufficiale. La situazione è instabile e fuori controllo”.

Di fronte a tutto questo, cosa hanno fatto le cooperazioni internazionali?

”In alcuni casi la pressione Europea è riuscita a fare la differenza, ma si tratta di miracoli, come nel mio caso che sono stata liberata, perché gente come me rappresenta una piccolissima minoranza. Questo avviene quando l’innocenza della persona sotto accusa è talmente palese che neanche il regime di Erdogan riesce a difendersi.

Erdogan è divenuto sempre più incurante delle pressioni esterne, soprattutto europee, basti vedere le posizioni di sfida che assume nei confronti di Angela Merkel e altri. La Turchia in questo momento è davvero un paese fuori controllo, ma nessun paese può sopravvivere da solo. La Turchia non è l’Impero Ottomano, come pensa Erdogan, ma un paese che militarmente ed economicamente è molto dipendente dall’Europa e dagli Stati Uniti. Questo gioco di fare il bullo non può durare all’infinito. Si sa muovere bene, è furbo, si intende di politica internazionale e sa sfruttare molto bene il pragmatismo e l’ipocrisia dei leader stranieri lo vediamo sia nei rapporti con gli Stati Uniti che in quelli con l’Europa. Il regime turco rappresenta una minaccia molto seria anche per gli interessi europei, quindi non credo che questa cosa possa durare all’infinito”.

Cos’è per lei oggi la libertà?

”Non lo so neanche io, cerco di scoprirlo giorno per giorno. Mi ricordo che la prima cosa che ho fatto quando sono uscita dal carcere è stata quella di correre verso il mare, perché pensavo che mi avrebbe fatto sentire una grande senso di libertà, ma così non è stato. Mi sono sentita moto libera qualche giorno fa ad Acri, in Calabria, dove sono stata di recente, ho guardato le montagne e ho pensato: sono libera. La libertà è un concetto molto allusivo, ma è spesso lei stessa a parlarti e sei tu che devi essere in grado di ascoltarla. In prigione non c’è niente, ti manca ogni cosa, un albero ad esempio, poi esci e ce ne sono milioni, ma non è mai quell’albero che sognavi di vedere. La stessa cosa vale per un caffè che hai desiderato lì dentro: quando esci ne puoi avere quanti ne vuoi, però mai come quello che volevi. La vita ti dà o niente o tutto, ma non ti dà quell’albero che sognavi di vedere o quel caffè che volevi bere. La libertà è qualcosa a cui ci si abitua con troppa facilità, in carcere te ne rendi conto. Quando sono uscita, un’altra cosa che ho fatto è stata ascoltare Bach a tutto volume per tre giorni di fila. Non è una musica leggera, ma ero libera di scegliere quella musica che volevo sentire. Alcune cose, poi, il carcere ti costringe a non pensarle, come per esempio il sesso. I prigionieri maschi si fanno meno problemi a dire o scrivere di quanto manchi loro il sesso; per le donne è diverso, è un argomento tabù, non se ne parla quasi mai neanche tra le carcerate. Ho conosciuto molte ventenni che non avevano mai avuto un ragazzo e – probabilmente – non l’avranno mai. Il contatto fisico, parlo delle donne, è necessario, ma non ha nulla a che vedere con l’omosessualità. Le ho viste abbracciarsi tra di loro, ci siamo abbracciate tutte insieme quando una di noi è stata allontanata e in quell’abbraccio c’erano tutte le persone lasciate fuori dal carcere. La prigione mi è servita per capire cos’è l’amore e la libertà: lì tutto ti può essere portato via in qualsiasi momento. Fuori li apprezzi di più”.

Spegniamo il registratore e dopo esserci salutati con un lungo abbraccio, ci dice: ”Non so se ci rivedremo, ma ricordi che il miracolo del mondo è eterno”.

http://www.huffingtonpost.it/2017/12/05/asli—erdogan—erdogan—e—un—bullo—ma—il—suo—gioco—non—puo—durare—all—infinito_a_23297391/

5.12.2017
Giuseppe Fantasia


 

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